Tokyo, 6.8.2021: A sinistra, il primo frazionista Patta sta per porgere il testimone a Jacobs, il secondo

«Lorenzo Patta […] è stato fenomenale nel disegnare la linea ideale di corsa che, in ottava corsia, doveva puntare dritta alla mano di Jacobs, un bersaglio di sette centimetri quadrati che va centrato con precisione da arciere». L’Italia vince l’oro nella 4×100: l’analisi tecnica della staffetta perfetta (Corriere della Sera, agosto 2021)

E’ verissimo che lo sbattere con decisione e con sincronia, viaggiando quasi in apnea a >40 Kmh, il testimone dentro la mano spalancata che il frazionista davanti a noi ci porge di spalle, è un’operazione tanto complicata da costituire uno dei principali discrimini tra vittoria e sconfitta nelle gare di staffetta.

Però secondo me il palmo di Jacobs era «un bersaglio di sette centimetri quadrati» quando Marcell era un poppante. Nel 2021, ho il sospetto che fosse più vicino ai quarantanove… 😉

In giugno 2023 ancora il Corriere ci informa che secondo il magistrato inquirente che ha analizzato le immagini di telecamere all’aperto, l’assassino di Giulia Tramontano ha sotto il braccio «verosimilmente un lenzuolo bianco o plastica delle dimensioni di 50 centimetri circa».

E le voragini aperte nelle strade dal maltempo o dalle esplosioni di gas o dai missili balistici hanno invariabilmente, per i nostri media, dimensioni lineari: uno squarcio di dieci metri, trenta metri, e così via. Idem dicasi delle masse in mano ai chirughi o quelle nelle immagini radiografiche, salvo che al posto dei metri ci sono i centimetri. Rigorosamente lineari.

😱

I concetti di lunghezza e di area e di volume si imparano alle primarie e si dovrebbero consolidare alle secondarie inferiori. Evidentemente, da noi qualcosa lì non funziona. E non si aggiusta quasi mai, dopo.

Non c’entrano gli sproloqui sul retaggio gentiliano o la mancanza delle “materie scientifiche” a scuola o le fatidiche STEM: ai tempi di Gentile, queste cose si imparavano alle elementari.

Sono questi, insieme a tanti altri (tipo la padronanza del linguaggio), gli ingredienti atomici che fanno concludere al prof. Ricolfi che un PhD di oggi ha in media il grado di organizzazione mentale di un diplomato del 1962 (La società signorile di massa, 2019, pagg. 56-66).

La banda di Gore

Pubblicato: 4 giugno 2023 da Paolo Magrassi in Politica e mondo
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Jaefrench – Pixabay

La destra liberale è sepolta da mezzo secolo in Italia, sostituita da versioni sudamericane oppure semplicemente coatte. Emerge forse solo nella cultura espressa da Il Foglio, uno dei pochissimi quotidiani, insieme a Il Manifesto, che mi accade di comprare in forma cartacea.

Una delle fissazioni del Foglio, derivatagli dal fondatore Elefantino che la coltiva dai tempi del Bush spodestato da Clinton, è che il global warming sia un’invenzione di Al Gore e di certi suoi amichetti cinesi piazzisti di modernariato fotovoltaico.

Solo pochi giorni fa Jacopo Giliberto, intento ad analizzare il potentissimo terrorismo ambientale che sarebbe al lavoro per rendere credibili agli occhi di noi popolino gli effetti—altrimenti invisibili— del problemuccio climatico, definisce «infiammata combattente climatica» una dei piromani che operarono durante gli incendi del 2021 in California, di fatto adombrando che la devastazione fosse più opera di terrorismo che non di squilibri atmosferici.

Ma salvo il coattissimo California Globe tutti in America sanno che la Alexandra S. in questione era una svitata che fu subito ricoverata in clinica riemergendone dopo molti mesi. E temo che l’intero pezzo di JG sia afflitto dalla scarsa precisione cronistica che può sorgere allorché i pregiudizi si combinano con le traduzioni posticce (come “la Caltech” in luogo de “il Caltech”, California Institute of Technology).

Ora, io capisco che nel dibattito tra tifoserie il riscaldamento globale è di sinistra mentre, chessò, l’energia nucleare è di destra: fu a suo tempo scientificamente provato!

Ma penso che dopo un quarto di secolo sia giunto il tempo per l’ottimo Guliano Ferrara di dismettere la sua antica passione antiecologica, data anche la conferma dei principali modelli previsionali IPCC, la loro ormai quasi ufficiale sottostima della velocità del fenomeno, e i tre Nobel per la fisica concessi agli studiosi i cui lavori resero prossibili proprio quei modelli.

O Giuliano e fedeli seguaci: si può essere liberal pur “credendo” nel global warming, come si può essere anti-neoliberisti “credendo” negli OGM. E interisti pur pensando che Roma sia molto più bella di Milano.

Quando da ragazzo leggevo, com’è tipico, libri di psicologia mi accorsi che la sindrome della quale spesso soffrivo e consistente nel colpevolizzare le vittime era un problema noto e comune: l’attribution bias (non sono abbastanza colto in materia da conoscerne il gergo italiano).

Colpisce tutti, chi più chi meno. Ed è un po’ la sorte di cui cadono vittime Gregor nella Metamorfosi e Heathcliff in Cime Tempestose. Se vediamo qualcuno che si trova in una situazione molto difficile o di sofferenza estrema, possiamo a volte attribuire la causa del suo stato a sue colpe personali. In tal modo, ci sentiamo confortati dal pensare che il mondo sia giusto e che le cose cattive accadano solo a coloro che le meritano.

Purtroppo, si tratta quasi sempre di grossolane semplificazioni della realtà. Molte situazioni complesse e difficoltà personali sono il risultato di tanti fattori, che possono includere circostanze esterne, eventi imprevedibili o anche solo sfortuna. Invece l’attribution bias ci porta spesso a sviluppare totale mancanza di empatia nei confronti di persone in difficoltà.

Ecco, io credo che da Moni Ovadia a Silvio Berlusconi alle prime firme del Fatto Quotidiano, i tanti che odiano Volodymyr Zelenskyj siano affetti da quella sindrome.

Li tengo distinti dai pochi cretini che ignorano come la politica di Zelenskyj sia condivisa dalla maggioranza degli ucraini. E che non capiscono che l’Ucraina che si arrende a Putin somiglierebbe ormai a Israele che si arrende all’Iran. Né comprendono che la “guerra per procura” conviene al mondo democratico così come conviene all’Ucraina.

La Russia infatti, che pure è (insieme all’Ucraina) scrigno di magnifiche conquiste culturali, artistiche e scientifiche dell’umanità, ha scatenato o fomentato sette guerre nei soli ultimi trent’anni e dislocato truppe in sei paesi africani. La Grande Russia è un arcigno impero autocratico che (come un po’ anche l’Ucraina) non sa neppure dove stia di casa la democrazia e alzi la mano il fesso che preferirebbe vivere sotto il Cremlino invece che sotto la Casa Bianca.

Gli altri, gli Ovadia, i Berlusconi, il Fatto e così via, sono solo abbagliati dalla sindrome del “se l’è cercata”.

Vittorio Daniele – Paolo Malanima, 2007

Il mancato sviluppo del meridione italiano resta in gran parte un problema aperto (come quello delle regioni depresse di tutti i paesi evoluti). Gli studiosi esaminano il peso delle ragioni socio-culturali, di quelle istituzionali, delle scelte politiche, delle dinamiche nelle forze di mercato, della geografia dell’Italia.

La discussione si è svolta per oltre un secolo con una prevalenza quasi esclusiva di discorsi su base meramente qualitativa, com’è sempre stato tipico delle scienze umane e sociali italiane. Solo da vent’anni i ricercatori hanno cominciato a indagare anche i dati quantitativi. I freddi numeri da soli non spiegano nulla ma la loro ignoranza inficia qualsiasi ragionamento, rendendolo non-falsificabile e quindi ciarliero, infido.

Interpelliamo dunque degli esperti disinteressati e moderni, tenendo un occhio alla Figura sotto il titolo del post. Apprendiamo che:

  • La pressione demografica sulle risorse è stata sempre superiore nel Nord del Paese da quando i dati demografici consentono un confronto, ossia dal tardo medioevo;
  • Tuttavia, le ricerche che fin verso il 1995 hanno trovato il Nord più produttivo del Sud al momento dell’Unità d’Italia erano probabilmente viziate sia dalla scarsità delle fonti sia dalla sottostima della produzione agricola;
  • Studi successivi indicano semmai che al momento dell’Unità d’Italia il divario in termini di prodotto pro capite tra Sud e Nord era quasi impercettibile;
  • Con l’avvio dell’industrializzazione del paese, anni ’70-’80 dell’Ottocento, i divari regionali cominciano a manifestarsi;
  • E così nel periodo della Belle Époque 1891-1913 il Nord cresce a un tasso doppio di quello del Sud;
  • Alla fine del ventennio fascista, il divario del Sud in termini di PIL pro capite è del 44%;
  • All’incirca lo stesso di oggi;
  • Salvo un lieve riavvicinamento durante gli anni del Boom.

Un problema tosto, che nessuno è ancora riuscito a risolvere. E’ chiaro che, senza conoscere le cause, è molto difficile escogitare soluzioni. E, quanto a ricerca delle cause, abbiamo perso oltre un secolo di tempo sprecandoci in chiacchiere.

E a proposito di chiacchiere non è da escludere che una delle forze che tarpano il Sud sia la querimoniosa tesi meridionalista secondo la quale esso soffrirebbe ancora del sopruso garibaldino, e che senza il giogo dello Stato italiano esso sarebbe florido come sotto Franceschiello.

Eppure nei 163 anni dopo Calatafimi quasi tutto il mondo è cambiato dozzine di volte. Non è più l’Inghilterra a dominare gli oceani. L’impero ottomano è evaporato, e anche quello asburgico. L’URSS è venuta e andata, come nazismo e fascismo. La Francia è diventata repubblicana. Quattrocento milioni di cinesi sono andati a lavorare in città. Giappone e India son diventate potenze. La speranza di vita in Italia è passata da 49 a 80 anni. Inter e Milan sono passate a patron asiatici. Il clima è cambiato.

E i meridionalisti piagnoni ancora qui a parlar di Cavour come se fosse lui il colpevole della spazzatura in strada o degli ospedali sgarruppati? Io credo che questo alibi, ossia l’idea che qualsiasi cosa negativa accada al Sud—alluvione, delitto, frana, disoccupazione, malasanità—è colpa “dello Stato”, sia esattamente uno dei problemi che affliggono il nostro meridione, e che una condizione necessaria per ripartire sarebbe di sostituire quel mugugno inconcludente con uno scatto di orgoglio e autodeterminazione, come non pochi meridionali moderni stanno cercando di fare.

Il concetto di Stato contenuto in quella tesi, poi, è una caricatura. E’ vero che in tante zone del Sud lo Stato sembra assente: ma a latitare non sono le leggi o i dirigenti romani, bensì proprio la volontà locale di dotarsi di infrastrutture giurisdizionali efficienti, sovrapponibili a quelle in vigore al Nord. Pensiamo, per dire, alla Sanità. Fa eccezione il solo settore dell’ordine pubblico: lo Stato dovrebbe impegnarsi maggiormente nella lotta alle mafie, che a mio parere va condotta a livello nazionale.

Nei paesi civili ed evoluti, «lo Stato siamo noi». Nella mentalità piagnona di cui sopra, invece, lo Stato è un invasore beffardo e maligno, che dovrebbe essere sostituito da una Gemeinschaft autoctona. I piagnoni sono una delle palle al piede del Sud. Le altre, le devono scoprire storici, economisti, sociologi.

(Figure tratte sempre da Daniele e Malanima, 2007)

I believe that a scientist looking at nonscientific problems is just as dumb as the next guy.

Richard Feynman

Il grande Carlo Rovelli che arringa la folla al concertone del Primo Maggio mi ricorda l’involontario aforisma del grandissimo Feynman.

E me lo ricorda anche allorché gli viene offerta la possibilità di spiegarsi meglio e in noi si consolida l’impressione che in fatto di politica internazionale egli non sia che un altro arnese da talk show. Ne avevamo già tanti, e anche più facondi.

E allora io, ennesimo incompetente sulla scena, all’esile pacifismo ideologico e storicamente improduttivo di cui sembra nutrirsi Rovelli oppongo quello sofisticato e militante di Mounier.

C’era una volta

Pubblicato: 13 Maggio 2023 da Paolo Magrassi in Luoghi comuni, Politica e mondo
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La scuola è aperta a tutti.
L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita.
I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.
La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso.

Art 34 Cost.

La scuola italiana di ogni ordine e grado è malconcia assai. Basta guardare gli edifici. O la spesa dedicatale in raffronto alla media europea.

Però se si vuol parlare di ‘diritto allo studio’ allora bisogna leggere la Costituzione: ed eccola lì. Il diritto allo studio è quello scritto lì. La legge fissa poi un obbligo formativo gratuito, per ora limitato a dieci anni (due in più di quelli raccomandati dall’art 34 della Costituzione).

Dagli anni Settanta, i populisti di ogni colore, intenti a costruire una società di soli diritti senza doveri, hanno provveduto a estendere oltremisura anche il concetto di diritto allo studio, mediante stiramento del significato di “capaci e meritevoli”.

Tale stiramento è consistito nella sostanziale eliminazione della congiunzione che nel testo costituzionale unisce i due aggettivi predicativi. In sostanza, durante lo scorso mezzo secolo (1) tutti sono diventati meritevoli e (2) tutti i meritevoli sono venuti assumendo anche la prerogativa di essere capaci ossia studenti promettenti.

In tal modo, tutti gli studenti universitari sono divenuti capaci e meritevoli. Anche quelli che ciondolano inutilmente prima di lasciare (20%), quelli che si laureano con due o più anni di ritardo (25%), e quelli che si laureano con meno di 90 magari anche in università dove le lodi si sprecano.

Beninteso, il testo costituzionale ha più di settant’anni, e la società si è trasformata al punto da includere entro la popolazione studentesca dieci volte più abitanti che non nel 1948. Mentre si promulgava la Costituzione, ogni dieci italiani ce n’era uno con la licenza media: oggi ce ne sono otto. Non solo: oggi il 98% dei licenziati medi prosegue nelle superiori e il 70% si diploma.

Non è dunque strano che a tale modificazione quantitativa delle platee interessate possa accompagnarsi un allargamento del concetto di ‘diritto allo studio’. Inoltre, una società opulenta può permettersi qualcosa di più di una povera e scassata: il PIL pro capite dell’Italia è anch’esso circa otto volte quello del 1948.

Ci sono solo due ‘ma’.

Primo, il testo costituzionale va aggiornato ai tempi moderni, per evitare che nella pratica si paghi, chessò, l’alloggio a ogni squinzia o pischello che vuole stare via da casa anziché nell’università che si trova entro il raggio di 50 Km, senza essere ‘capace e meritevole’ nell’accezione del 1948, e magari senza concorso (*).

Secondo, anche le società opulente devono sapere far di conto e discernere tra quel che ci si può permettere e quel che invece è una spesa pazza: proprio il discernimento che è mancato all’Italia dai Settanta in poi e che ha portato alla crescita mostruosa del debito pubblico. Una delle conseguenze di quello scialo è che oggi, benché i costi degli affitti sui quali frignano i manifestanti siano tra i più bassi d’Europa, lo sono anche gli stipendi netti dei genitori che devono pagarli (25% in meno degli stipendi francesi e 34% in meno dei tedeschi).

Secondo me, anche se non si modifica il testo costituzionale ciò che si può (e deve) fare è investire in tutte le strutture e infrastrutture scolastiche—settore in cui l’Italia è gravemente insufficiente—favorendo in modo indifferenziato tutti gli studenti. Il resto che si sente in giro è solo fuffa diffusa da una classe politica smidollata e insipiente che va in tv a difendere (peraltro a chiacchiere) ogni smanioso che strilla, per procurarsene il voto.

(*) Va da sé che anche qui c’è un’area grigia. Ogni cento ragazzi che dal paesello vanno a studiare a Roma, ce ne sono cinque che a Roma trovano il corso di studi che nel loro capoluogo non c’è e altri forse trenta o quaranta che vanno a Roma con l’idea di raffermarvisi a lavorare dopo la laurea. Questi 35%-45% hanno quel ‘diritto allargato’ che si è venuto affermando nella società opulenta.

Mentre crescono nei paesi poveri, le nascite sono in calo da duecento anni nei paesi opulenti, e ivi attestate dall’inizio del XXI secolo sotto la soglia della crescita demografica—pari ad almeno due figli per donna fertile. Vedi figura.

Il fenomeno sembra dipendere solo molto debolmente, anzi quasi per nulla dal sostegno economico alle giovani coppie. Si tratta di un fatto noto da decenni, e confermato ancora recentemente dai risultati dei paesi europei che hanno attuato misure di incentivazione e sostegno economico per un tempo apprezzabilmente lungo, e che a dispetto di ciò restano tutti in decrescita a meno di non puntare sull’immigrazione.

Ecco qua sotto i risultati della mitica Francia, che stando ai media italiani assicurerebbe la crescita della popolazione grazie al fisco, mentre in realtà è demograficamente tenuta in piedi dagli immigrati.

L’Europa nel suo complesso, è sotto la soglia della crescita demografica da cinquant’anni. (Cfr. ancora la figura grande, all’inizio).

Le cause socioculturali e antropologiche della denatalità (vide infra) sono complicate. Ne ignoro lo spessore e le ramificazioni. Del problema so solamente quanto basta per essere deluso, come nel caso del fenomeno migratorio, dalla piccineria e dai vaneggiamenti del dibattito nazionale sul tema.

(Osservo, per esempio, che vengono ignorati gli indizi offerti da indagini sociologiche italiane recenti che hanno constatato come le donne lavoratrici abbiano più figli delle donne inoccupate, e riscontrato maggiore fertilità nelle famiglie delle borgate che non nel centro di Roma, dove gli affitti sono cinque volte più elevati e gli asili nido abbondano.)

Il calo della natalità è una tendenza che riguarda tutto l’Occidente, e la ricerca intorno alla questione è partita da tempo.

In The Prime of Life. A History of Modern Adulthood (2004) lo storico e pedagogista Steven Mintz argomentava che la diminuita fertilità sembra correlarsi con una minore e più lenta propensione a diventare adulti nel mondo opulento. Ma c’è dell’altro che si aggiunge.

Ad esempio lo stato sociale è considerato piuttosto un inibitore che un facilitatore della crescita demografica “autoctona”. L’assenza di welfare rende molto utile avere una prole che si occupi della vecchiaia e della salute dei genitori, specie se si accompagna a un patrimonio familiare basso. Entrambi questi fattori—il welfare e il patrimonio—sono cambiati drasticamente in meglio in tutto l’Occidente durante gli scorsi 100 anni e infatti la natalità è precipitata.

Ci sono poi altri motori non-economici della più elevata fertilità di un tempo, come ad esempio la grande mortalità infantile, che incoraggiava chi faceva un figlio a farne altri. (Ancora negli anni del boom economico, per dire, la mortalità intantile italiana era dieci volte più grande di oggi).

Non a caso, già nel 2000 il rapporto Replacement Migration dell’ONU pronosticava:

“Quantunque sia possibile che la fertilità rimbalzi nei prossimi decenni [e non è successo, NdT], pochi credono che la fertilità nella maggior parte dei paesi sviluppati si riprenderà in misura sufficiente a raggiungere il livello di sostituzione [i 2 figli per donna, NdT] nel prossimo futuro, rendendo così inevitabile il declino della popolazione in assenza di migrazione sostitutiva”.

Il problema delle ragazze

Pubblicato: 9 Maggio 2023 da Paolo Magrassi in Uncategorized

L’Economist, che sa far di conto, ha esaminato i dati di cui si dispone concernenti una presunta crescita del disagio adolescenziale in Occidente, tema inaugurato da una sociologa americana qualche tempo fa e secondo la quale la colpa sarebbe principalmente da ascriversi all’uso dei social.

The Economist, 3 maggio 2023

I dati reperiti dall’Economist riguardano 17 paesi e considerano i suicidi (Figura qui sopra) e quegli atti di autolesionismo che hanno portato a ricoveri ospedalieri.

Complessivamente, da qualche anno si è impennato il numero di suicidi tra le teenager (soprattutto) e tra le ragazze in generale. I suicidi dei maschi non stanno crescendo.

E’ un fenomeno curioso, se si considera che comunque i maschi, nei 17 paesi in esame, si suicidano due volte più frequentemente delle femmine (4 volte in Italia).

Comparando questi dati con quelli riguardanti la crescente adozione degli smartphone e il successo dei social, l’analisi dell’Economist non è riuscita a trovare alcuna relazione tra i due fenomeni.

L’Economist conclude la sua analisi dicendo: “L’assenza di prove non è una prova di assenza. Numerosi studi […] hanno suggerito che i social media possono causare tristezza o ansia negli adolescenti. E gli smartphone potrebbero infliggere gravi danni pur senza indurre le persone a ferirsi o uccidersi. Ma se i social media fossero l’unica o la principale causa dell’aumento dei livelli di suicidio o autolesionismo, piuttosto che solo una parte di un problema complesso, i dati a livello nazionale mostrerebbero probabilmente segni del loro effetto.

PS1: In Italia, nessun dato preoccupante fino al 2021, ma ancora non trovo fonti affidabili.

PS2: Gli studi quantitativi provengono da fuori Italia (dove l’analisi è, al solito, esclusivamente qualitativa). Pertanto, attenzione alle trasposizioni: “ragazza” in italiano può significare anche una donna di 35-40 anni—e oltre, nel caso di “ragazzo”—mentre in UK o USA o Scandinavia se apostrofate con “girl” una quarantenne, quella può chiamare la polizia.

Pappagallo stocastico ?

Pubblicato: 29 aprile 2023 da Paolo Magrassi in Scienza
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Una classica critica rivolta a sistemi come ChatGPT è il dire “Non fa altro che indovinare in modo statistico la parola o la frase più giusta da profferire, dopo avere guardato a milioni di testi”.

E’ un’affermazione che dice pur qualcosa al profano, ma al contempo semplifica troppo, andando lontano dal vero.

Per prima cosa, ai neuroscienziati non è ben noto in che modo il mio cervello decida di scrivere la prossima frase. Per quel che ne sappiamo, potrebbe anche essere che la indovini in modo statistico, con un po’ di salsa grammaticale aggiunta. Dunque, calma. 😉

In secondo luogo, i Large Language Models (LLM), come ChatGPT, non lanciano dadi. Per imparare usano raffinata ottimizzazione matematica e una varietà di astuti espedienti.

Quando si addestra un sistema come un Large Language Model si utilizza un insieme di dati pensato apposta per l’addestramento linguistico: cose come Wikipedia, il Toronto BookCorpus, i giornali, altre parti di Web, e così via. Osservando il periodare umano, il sistema stesso genera i test per il proprio training (per esempio mascherando delle frasi e vedendo se e come poi le rigenera), quindi calcola anche il livello di errore che ottiene durante i tentativi di generazione, e cerca di ridurlo migliorando le proprie deduzioni.

Questo modo di procedere si chiama apprendimento automatico auto-supervisionato, self-supervised machine learning.

Dopodiché, i progettisti sanno che il loro LLM andrà incontro ad ambienti diversi da quello di test e che verrà invitato a dialogare con persone normali e con altre macchine: lì esso dovrà generalizzare quello che ha appreso, passando dai compiti di scuola alla vita vera degli ambienti ‘di produzione’.

E qui entra in gioco l’errore di generalizzazione: il valore atteso dell’errore su nuovi input. Se ne stima uno già in fase di pre-release, simulando futuri ambienti di produzione. Dopodiché, mediante l’utilizzo nel mondo reale si prosegue nella messa a punto, fino al re-training. E’ così che i sistemi diventano sempre più bravi.

Anche i bambini, per quel che ne sappiamo, imparano a parlare osservando gli adulti. Forse usano un po’ di apprendimento supervisionato (come quando li correggiamo) e un po’ di apprendimento auto-supervisionato, stile ChatGPT. Noi non conosciamo ancora i meccanismi di base dell’apprendimento umano del linguaggio né quelli della costruzione delle frasi. Per esempio, non esiste un consenso circa l’essere il cervello intimamente computazionale oppure no.

Ai bambini vengono poi insegnate le regole grammaticali, molto utili per costruire discorsi sensati. Molti progettisti di intelligenza artificiale, tra i quali Yann LeCun e Geoffrey Hinton, due delle persone alle quali dobbiamo le reti neurali artificiali in uso oggi (le ANN che formano il cervello dei GPT, del LLM, eccetera), ritengono che le regole grammaticali possano anche essere autoapprese da parte dei loro robot. Alcuni sostengono che invece debbano essere fornite alle ANN in modo esplicito, come si fa coi bambini a scuola.

I LLM attuali contengono già un po’ di consapevolezza linguistica (tant’è vero che traducono da una lingua all’altra). Per esempio, non trattano le parole né le frasi come entità isolate, bensì ne comprendono, rapresentandole come schemi algoritmici (che certo sono statistici ma quasi tutta la scienza lo è), le mutue interazioni entro un contesto. Inoltre, opportuni meccanismi consentono al LLM di soppesare l’importanza di diverse parole o frasi nel testo e di assegnare punteggi di attenzione a tali elementi del discorso in base alla loro rilevanza nel contesto presente. Questo permette al LLM di concentrarsi su parti specifiche dell’input e alla fin fine di risponderci appropriatamente.

Un’altra discussione in corso da tempo concerne il fatto che a differenza delle ANN i bambini possiedono delle competenze innate, e vengono proposti modi per dotarne anche le ANN.

Inoltre, e in parte in forza della conoscenza innata, i bambini hanno delle ‘visioni del mondo’ più ampie di quelle che gli forniamo quando gli insegniamo specificamente a parlare. Chessò: imparano da soli che esiste la forza di gravità, imparano a discriminare gli interlocutori (mamma, nonna, amichetto, estraneo), imparano a ironizzare, imparano a mentire.

Anche i maiali e i cani hanno una visione del mondo più ampia di quella che ChatGPT possiede, fatta solo di chiacchiere. Ed ecco perché Yann LeCun ha ribattuto, a chi parlava della marcia della IA verso una “God-like intelligence” e la conquista del mondo, che prima dell’intelligenza God-like dovremo costruire quella dog-like.

😉

[Appunti in calce] Il libro consta di circa 250 pagine più altre 100 di Note (che ho letto quasi per intero). Le prime 200 pagine trattano della deludente impronta aristotelica e della sua elaborazione (peggiorativa) da parte degli autori cristiani. Le ultime 50 dei (modesti?) progressi che dobbiamo all’Illuminismo.

Ho trovato convincente l’autrice anche perché essa si rivela studiosa di caratura. Non lo dico per le Note, peraltro gestite malissimo come tipico dell’editoria italiana, bensì per la disinvoltura e il rigore con i quali Sissa si muove tra i testi greci (è una grecista per formazione), le discussioni filosofiche, il dibattito storico e quello sociologico.

Ho trovato interessante—perché non mi par di ricordare che al liceo se ne parlasse—apprendere che Aristotele aveva scritto un mucchio di corbellerie indimostrate, giungendo a concludere per via di buffe analogie dentro il mondo animale e discorsi tra suocera e genero che la donna è molle, cedevole, irresoluta, inetta al comando, al combattimento e al pensiero in astratto. Io penso che le conoscenze del IV secolo AC non consentissero di trarre quelle conclusioni neuropsicologiche e mi sarei aspettato che Aristotele lo sapesse. Se anche le sue deduzioni sulle donne fossero valide, ciò sarebbe casuale anziché scaturire scientificamente dalle osservazioni naturali. Dunque Sissa mi ha fatto scadere Aristotele: lo scuso soltanto se per caso ha scritto quelle scempiaggini da vecchione di successo, un po’ come quei Nobel che van fuori di testa dopo la gloria. Ma temo non sia così.

A pagina 207 dovrebbe cominciare la boccata d’aria dell’Illuminismo ma essa inizia invece con amare sorprese. Già Rousseau è più retrivo, in fatto di questione femminile, di Tommaso d’Aquino e del suo medioevo. E poi la voce ‘Donna’ dell’Encyclopédie è deludente. Questi fatti, mi informa l’autrice, hanno sempre indotto le studiose femministe a liquidare l’Illuminismo come una tappa insignificante e anzi negativa, mentre a suo parere le note positive cominciano già nel Seicento prima con Cartesio (allorché si intona una nuova “melodia di spartito barocco: la donna non è un’invalida”), poi con François Poullain de la Barre (†1726), e infine con con Nicolas de Condorcet (†1794) nel Settecento.

Poullain fa notare che la complessione femminile (un corpo più piccolo e zeppo di impicci, come la gravidanza) non determina meccanicamente e necessariamente il carattere: essa semmai predispone, e l’educazione può intervenire per modificare il futuro della persona. Peccato che prima Aristotele (che pure rileva una più spiccata intelligenza della donna rispetto all’uomo) e poi Tommaso e Rousseau avessero sempre sconsigliato che alle donne fosse dato accesso alla formazione…

Condorcet aggiunge una briscola da matematico: non solo, se ricevessero una formazione adeguata, le donne potrebbero probabilmente fare ciò che fanno gli uomini, ma è del tutto illogico ciò che si fece nella “democrazia” ateniese ossia limitare la cittadinanza ai maschi in base alla considerazione che le donne sarebbero inferiori. Se le attitudini fisiche, caratteriali, e intellettuali dovessero essere considerate selettive per concedere la cittadinanza, allora tutti i maschi mediocri ne dovrebbero essere esclusi e l’Atene di Pericle avrebbe dovuto reggersi solo quell’uno per mille di uomini che sono geniali e/o quell’uno su cento che sono eroi nel combattimento. Come minimo, si sarebbe dovuto escludere dalla cittadinanza tutti gli uomini che erano inferiori a donne.

Ho trovato utile e interessante la comparazione tra la dottrina aristotelica sulla donna (poggiata su naturalismo dilettantesco e psicologia abborracciata) e le grandi figure femminili della tragedia greca. Forse le migliori pagine del libro. Per inciso: Aristotele dice che in fatto di società “il popolo ha ragione e i poeti torto”, perché i personaggi femminili della tragedia sono inventati e perché anche nei rari casi in cui sono storicamente veri, dentro o fuori dal teatro, come le amazzoni o come Artemisia di Alicarnasso, non sono che “donne fattesi uomini” e dunque non dimostrano nulla circa le possibilità di un riscatto femminile.

Ho trovato interessante il catalogo di Boccaccio delle donne notevoli (De mulieribus claris). Benché  imbevuto dei pregiudizi aristotelici, presentando 106 donne eccezionali Boccaccio mostra la sfera del possibile. Sono solo “donne fattesi uomini” o ci insegnano anche qualcos’altro? Comunque Boccaccio si dimostra inconsapevole del De mulierum virtutibus di Plutarco, testo che secondo l’autrice è più spregiudicato e si avvicina meno ad Aristotele che alla disamina delle virtù e dei difetti degli individui piuttosto che dei generi, con un piglio  che potremmo definire più illuminista che ateniese.

Ho trovato deludente, perché per me incomprensibile, il sostenere, come fa l’autrice, che il “diritto naturale” affermatosi con l’Illuminismo debba necessariamente considerarsi superiore alla “legge naturale” invocata dai bigotti per dire che la famiglia è fatta di un capo maschio e di una fattrice femmina. Mi sembrano sofismi della stessa fatta, anche se afferenti a conclusioni diverse, e, a ben vedere, non indispensabili nell’economia del libro. Ma forse ho capito male.

Ho trovato deludente, perché insufficiente, il finale. Le ultime 50 pagine sono mirate meno a istruire e informare il lettore che non a polemizzare con il mainstream del pensiero femminista, che considera l’Illuminismo una tappa solo nera nella emancipazione della donna. E così alla fine il lettore non capisce che impatto abbiano avuto Poullain de la Barre e Condorcet sul futuro, in termini di legislazione, pratica giuridica, sentire comune, letteratura; e il sapere che #MeToo e Kamala Harris ne siano conseguenze importanti (trecento anni dopo!) non appaga. Le prime 200 pagine sono accurate e convincenti, le ultime 50 sono o troppo tecniche o insufficienti. Gli editori dovrebbero parlare con gli autori prima di pubblicare ma credo che questo non si faccia sostanzialmente più. (Il libro è tradotto dal francese)

Da quando si sono mossi i grandi flussi verso l’Europa ossia da oltre trent’anni, l’accoglienza nei confronti degli immigrati non-occidentali (come sappiamo, è molto più facile essere accoglienti con le proprie etnie omologhe) è stata esemplare in Scandinavia. In Norvegia, per dire, venivi accolto con una casetta, l’assistenza sociale e medica gratuita, la scuola per i figli, e un posto di lavoro.

(Noi, incivili e incapaci, ancora stiamo discutendo se convenga di più colare a picco i barconi oppure aprire le cancellate verso una vita nelle stazioni ferroviarie o tutt’al più da schiavi stagionali in campagna).

Sarà forse un caso, ma nell’ultimo quindicennio circa ha avuto inizio una traslazione verso destra delle maggioranze politiche scandinave (*). C’è chi sostiene, io compreso anche se ne leggo solo in inglese non conoscendo le lingue locali e quindi non sono informatissimo, che ciò sia avvenuto sostanzalmente sotto la spinta del fastidio provocato dagli immigrati. Insomma, a quanto pare l’accoglienza non ha funzionato. Non si è trasformata in integrazione.

Difficile dire se il culture clash abbia riguardato maggiormente l’etnia o la religione. Ma forse più la seconda. Per esempio da anni si discute se legalizzare o no le Corti Islamiche, quelle delle quali la Gran Bretagna è infestata da decenni ma non ha mai voluto regolarizzare per non abbassarsi a riconoscerle: sono tribunali civili ufficiosi che amministrano il diritto di famiglia (e alcuni altri aspetti sociali) con poco o punto riguardo per la giurisdizione e i costumi locali. Pensate, tanto per citare un solo aspetto, alla differenza che corre tra la condizione femminile in Scandinavia e quella nelle famiglie musulmane africane o del subcontinente indiano.

L’esperienza scandinava—accoglienza seguita da pentimento, ammesso che io abbia capito bene—mi corrobora in un mio vecchio pregiudizio, ossia che l’integrazione etnica abbia luogo solo in circostanze speciali, come sono ad esempio quelle di un perfetto livellamento economico.

L’integrazione funziona sempre benissimo quando ci sono formidabili incentivi economici: guardate le squadre di calcio. Funziona benissimo anche negli ambienti elitari. Alla ammirevole King’s Academy of Jordan, al Technion di Haifa, nei collegi svizzeri, al GeorgiaTech, a Stanford, alla London School of Economics, a SciencesPo, all’Ocse o all’Onu, studiano o lavorano felicemente persone di decine di etnie e religioni diverse, così come accade in tante aziende multinazionali. Vedi le GAFAM (Google Apple Facebook Amazon Microsoft), che in America ti pagano minimo 200mila dollari l’anno se solo sai programmicchiare in C++ o Java o Python, che tu sia caucasico nero indio chino chicano o marziano.

Ma queste realtà e le tante ad esse simili, pur ammirevoli, da incoraggiare e imitare, rappresentano numericamente solo qualche centesimo dell’umanità. Nelle sconfinate periferie delle città di ogni latitudine, comprese quelle in cui hanno sede le illuminate istituzioni di cui sopra, e dove abita la maggior parte del mondo, le diverse etnie vivono in ghetti separati, quando addirittura non si guardano in cagnesco—come accade se le immigrazioni sono recenti. Sorgono problemi di culto, la difficoltà di costruire una società laica, e attriti in campo formativo, medico, civile.

I matrimoni misti, per dire, sono ovunque rari e poco incoraggiati, persino in Usa. Dopo 200 anni di immigrazioni, gli statunitensi “meticci” erano nel 2010 solo il 3% della popolazione secondo il Census Bureau, o al massimo il 15% (sempre pochi) secondo altre stime.

Non so se questo implichi che ai Paesi ancora “vergini” convenga erigere muri. Ma ci andrei piano con gli entusiasmi, e mi occuperei di incoraggiare un dialogo civile, rispettoso e razionale dal quale fosse bandito il vacuo e pernicioso politically correct, nonché di pensare per bene le politiche, soprattutto andando a vedere i paesi che hanno vissuto questi problemi molti decenni prima di noi (Gb, Usa, Francia, per dire solo del mondo occidentale).

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(*) La Norvegia non aveva bisogno di cambiare governo nel 2013, trovandosi in floride condizioni economiche. Però gli immigrati erano già il 15% dei residenti nel 2012, addirittura il 32% a Olso: sono numeri più grandi di un mezzo di quelli dell’Italia e rispettivamente di Milano, oggi. In Svezia, la destra ha vinto solo sei elezioni nell’ultimo secolo, però ben tre di esse sono avvenute durante l’ultimo quindicennio, e con una partecipazione elettorale in crescita. Negli ultimi dieci anni, il partito populista e xenofobo Democratici Svedesi è diventato il secondo del paese, sotto la spinta dell’avversione all’immigrazione. La popolazione residente immigrata è circa il 15%. In Danimarca è il 10% (come in Italia), sette decimi della quale vivono nei “ghetti” (sic), ovvero zone a basso reddito, basso livello di istruzione, alta criminalità, alta disoccupazione e prevalenza di origini etniche non occidentali.

La transizione di fase

Pubblicato: 26 marzo 2023 da Paolo Magrassi in Politica e mondo

Se davanti alla Bastiglia nel 1789 ci fosse stata la tv, i rivoltosi avrebbero rilasciato interviste intrise dell’illuminismo di Diderot, Condorcet, d’Alembert, Paine, Jefferson, magari condito con richiami a Montesquieu, Voltaire, Rousseau, oppure avrebbero detto le minchiate che dicono i Gilets Jaunes?

Ipotesi di studio, per gli amici storici: Sono credibili le alate ricostruzioni della Rivoluzione che apprendiamo dalle biblioteche, o magari essa emerse da una bolla di caos deterministico (cfr. Coullet, Lorenz, Lyapunov, Mandelbrot, May, Smale, ecc.) e i vostri colleghi ci hanno ricamato sopra?

Magistra vitae?

Pubblicato: 13 marzo 2023 da Paolo Magrassi in Luoghi comuni

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Il motto della storia come “maestra di vita” ce lo trasciniamo da Cicerone: «La storia è testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra della vita, messaggera dell’antichità» (De Oratore II, 9). Ma lui era un retore, e stava scrivendo un libro per insegnare retorica. Come prendere alla lettera la retorica?

Io suggerirei maggiore cautela a profe, maîtres à penser e animebelle assortite (tra le quali non posso escludere di essermi a volte annoverato) le quali predicano che se sapessimo la storia non continueremmo a fare gli stessi errori.

Gli errori tornano sempre. Tornano insieme alla storia, che non si ripete uguale: perché cambia un po’ lei e, soprattutto, perché quando torna trova un mondo diverso da quello che aveva visitato.

Putin divenne avvocato negli anni Settanta, dunque di sicuro studiò storia seriamente, eppure di errori ne sta affastellando un fottio, rovinando la Russia a 360 gradi. Luciano Canfora può dirsi addirittura storico accreditato, eppure è stalinista (trovandosi, non so quanto a disagio, entro una minoranza non precisamente qualificatissima) e curiosamente utilizza questa sua visione politica per scusare l’invasione dell’Ucraina e forse per non escluderne la distruzione.

Canfora mi fa pensare al più saggio Enrico Fermi, quando in America continuavano a proporgli di assumere incarichi politici: “Ho sperimentato troppe volte che la politica è una cosa complicata ed estranea alla mia competenza”. O, per restare tra i Nobel, a Richard Feynman: “Credo che uno scienziato che si occupa di problemi non scientifici sia stupido tanto quanto chiunque altro”.

Io vorrei che Luciano Canfora si restringesse ai classici anche quando lo invitano sui media. Non lo inviterebbero più, è vero: ma se lui mi dicesse che la rinuncia gli costa allora perderebbe la mia stima e potrei smettere di curarmi di quel che viene dicendo.

E vorrei che le profe e i maître à penser aggiornassero la didascalia, desistendo dal finalizzare la cultura—o anche la semplice laurea, o la lettura—a risultati pratici quando non venali, prospettandone invece il ruolo taumaturgico, di arricchimento (trovino loro un altro termine, sennò la gente capisce €€€) e di intrattenimento. Che non mi pare poco. Il resto è grasso che cola.

AGGIUNTA DEL 23 MAGGIO 2023:

Letto oggi l’originale necrologio che Jean-Philippe Bouchaud ha dedicato a Robert Lucas, non posso astenermi dal ricopiare qui un paio di ulteriori argomenti che si applicano tels quels alla favola secondo la quale la conoscenza della storia potrebbe essere usata per non ripetere gli errori Mi servo delle parole di JPB quasi letteralmente:

  • Anche le persone intelligenti non riescono a sottrarsi alla commissione di qualche errore stupido, a causa dei pregiudizi comportamentali di cui tutti soffrono e anche a causa dello spirito di emulazione che ci porta a fare le cose solo perché le fanno gli altri, anche quando dentro di noi sentiamo che è una follia fare così.
  • Le folle possono essere razionali anche quando gli individui non lo sono ma, cosa più importante, le folle possono essere irrazionali anche quando gli individui non lo sono. Ecco perché i comportamente di gregge sono, a mio avviso, la principale determinante delle crisi economiche e dei crolli finanziari (almeno in assenza di shock esogeni, con il 2008 come esempio calzante).
  • Il nostro mondo non è un gioco semplice: la sua dinamica è complessa, non ergodica, non stazionaria. Gli schemi non si ripetono necessariamente.
  • Impariamo il passato, ma quanto è utile ciò di fronte a incertezza radicale? E anche quando gli individui imparano (poco) alla fine muoiono e la nuova generazione, ahimè, dimentica le lezioni del passato. La famosa critica di Lucas si applicherebbe se il nostro compito fosse imparare a giocare a tiramulino, ma non si applica a noi umani con capacità cognitive limitate ed emozioni travolgenti.

Help!

Pubblicato: 10 marzo 2023 da Paolo Magrassi in Luoghi comuni, Politica e mondo
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Qualcuno mi spiega in che senso il comunismo sarebbe finito intorno al 1989?

La seconda potenza del mondo, e la prima economia in termini di PIL a parità di potere d’acquisto, è la Repubblica Popolare Cinese, un sistema a partito unico sotto l’esclusiva leadership del Partito Comunista Cinese.

Il Partito Comunista Cinese è l’unico del paese: in Cina non si dice “il partito comunista”, si dice “il partito”. E’ stato fondato nel 1921 con la consulenza dell’Internazionale Comunista e del PC dell’Unione Sovietica. Lo statuto lo definisce “socialismo con caratteristiche cinesi”, che credo significhi, essenzialmente, “con elementi mercantilistici”.

Il ‘parlamento‘ si chiama Congresso Nazionale del Popolo (CNP) e si riunisce una volta l’anno. Ha circa tremila membri, eletti ogni cinque anni dalle federazioni provinciali del Partito Comunista. Per sbrigare l’ordinaria amministrazione, il Congresso nomina ogni anno un Comitato Permanente di circa trecento persone.

Non esiste separazione dei poteri. Oltre a legiferare e a eleggere i maggiori ufficiali dello stato, il CNP sovrintende alle operazioni del governo, della corte suprema, dei comitati speciali, della procura suprema, della commissione militare centrale.

Sia chiaro che, da ignorantissimo, sto ultrasemplificando. So nulla di scienza politica. Del Monde Diplomatique o di Foreign Affairs leggo forse 1 articolo all’anno. Ho letto, quasi mezzo secolo fa, giusto il Manifesto e qualche paragrafo del Capitale e dei Grundrisse, che a loro volta hanno quasi due secoli. Non so cosa direbbero Marx o Engels del comunismo cinese. Non so neppure che ne dissero o pensassero Lenin, Trotsky, e Gramsci, che lo hanno visto nascere.

Cortesemente, qualcuno mi spiega, magari mandandomi un link, in che senso il comunismo ha perso e non esiste più?

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PS del 18 marzo 2023: Ho colmato parte della mia ignoranza interpellando l’intelligenza artificiale:

Paolo: Ti risulta che intellettuali e/o studiosi di scienze sociali abbiano esaminato il vecchio cliché nord-atlantico della presunta “fine del comunismo”, alla luce dei successi materiali del comunismo cinese nel corso dell’ultimo quarto di secolo?

ChatGPT: Sì, ci sono stati molti intellettuali e studiosi di scienze sociali che hanno esaminato il cliché della “fine del comunismo” alla luce dei successi materiali del comunismo cinese degli ultimi decenni.

Uno dei principali esponenti in questo campo è stato il sociologo francese Jean-Luc Domenach, che ha scritto diversi saggi sulla Cina contemporanea, tra cui “La Cina misteriosa” e “La Cina e il nuovo mondo”. Domenach ha sostenuto che la Cina sta dimostrando che il comunismo può funzionare come modello di sviluppo economico, anche se in una forma adattata al contesto locale e con forti elementi di capitalismo.

Anche altri studiosi hanno analizzato la questione, come ad esempio il politologo tedesco Wolfgang Merkel, che ha pubblicato un saggio intitolato “La fine del comunismo? Riflessioni sulle esperienze della Cina e della Corea del Nord”. Merkel sostiene che la Cina ha dimostrato che il comunismo può adattarsi alle condizioni locali e avere successo economico, ma che rimangono comunque importanti sfide politiche e sociali da affrontare.

In generale, gli studiosi che hanno esaminato la questione hanno sottolineato che la Cina ha implementato una forma di comunismo molto diversa da quella che era stata sperimentata in passato, e che il successo economico della Cina non risolve tutte le questioni politiche e sociali legate al comunismo come ideologia. Tuttavia, la Cina ha comunque dimostrato che il comunismo può essere un modello di sviluppo economico efficace in determinate circostanze.

Paolo: Mi fornisci una bibliografia un tantino più estesa, dalla quale possa diramarsi uno studio?

ChatGPT: Certamente, ecco una selezione di testi che affrontano il tema della “fine del comunismo” alla luce del successo economico della Cina:

  • Domenach, Jean-Luc. “La Cina misteriosa: potenza e modernità.” Laterza, 2010.
  • Domenach, Jean-Luc. “La Cina e il nuovo mondo: un’utopia realista.” Laterza, 2018.
  • Merkel, Wolfgang. “La fine del comunismo? Riflessioni sulle esperienze della Cina e della Corea del Nord.” in “Democrazia e diritti umani in Asia orientale: Stato della ricerca e prospettive future.” FrancoAngeli, 2011.
  • Pei, Minxin. “China’s Trapped Transition: The Limits of Developmental Autocracy.” Harvard University Press, 2006.
  • Jacques, Martin. “When China Rules the World: The End of the Western World and the Birth of a New Global Order.” Penguin Books, 2012.
  • Heilmann, Sebastian. “China’s Leninist Legacy: Technocratic Leadership and Economic Management.” in “China’s Political System: Modernization and Tradition.” Cambridge University Press, 2018.

Questi testi offrono un’ampia panoramica dei temi legati alla “fine del comunismo” e ai successi economici della Cina, spaziando da analisi sociologiche a studi politici. Spero che ti siano utili per approfondire la tua ricerca!

Antologia guglanica

Pubblicato: 10 marzo 2023 da Paolo Magrassi in Uncategorized
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Non ringrazieremo mai abbastanza Dio per averci dato, insieme alle strane brutture del mondo (che Egli stesso non è mai riuscito a spiegare), dei fini filologi come questi, che oltre a studiare svolgono il nobile còmpito sociale di ricreare gli animi degli affaticati con belli motti e leggiadri, se posso così parafrasare il Decamerone. Questa è solo una snella selezione: ne trovate infiniti con Google—e infinite grazie anche a lui. Direi che il Pulitzer va al terzo, quello a fondo scuro, dove l’esegeta ci fornisce un contesto mentre spiega la barzelletta.

Platone e l’X factor

Pubblicato: 8 marzo 2023 da Paolo Magrassi in Uncategorized
Platone (sx) e Aristotele discutono di X Factor alla Scuola d’Atene

Nell’aprile 1968 l’etichetta milanese Clan pubblica il 45 giri Una carezza in un pugno, cantato dal campione naïf Adriano Celentano, che per inciderlo ha interrotto per un giorno le riprese del Serafino di Pietro Germi e che in seguito non promuoverà il disco in alcun modo, restando impegnato sino a fine estate nella produzione del film. È un grande brano pop che farà epoca, entrerà nel gergo collettivo («Ma non vorrei che tu / a mezzanotte e tre / stai già pensando a un altro uomo…») e attraverserà il tempo con immutato successo, rivitalizzato anche da un rilancio di Fiorello a metà degli anni Novanta.

Nel giro di due soli mesi, però, accade una cosa strana e del tutto inattesa: il lato B del disco, Azzurro, nella Hit Parade passa davanti, surclassando quella che doveva essere la canzone dominante. In effetti era e rimane un brano formidabile, che Paolo Conte porta in concerto da quarant’anni, il più delle volte in un’essenziale e scarna forma pianistica per non turbare la versione originale del Molleggiato, da lui considerata inarrivabile.

I discografici però, e lo stesso Adriano, avevano puntato su Una carezza in un pugno, come dimostra in modo inequivocabile il fatto che a questa era stato dedicato il Lato A del disco, il lancio pubblicitario, la copertina. A quei tempi, i 45 giri portavano incisi due brani singoli, dei quali uno era proposto come successo e l’altro come pallone sonda, o persino un riempitivo. Il Lato B di un cantante affermato era pur sempre una canzone più che decente, ma di fatto si scommetteva sul Lato A tutto l’investimento effettuato e da quello si attendeva il ritorno finanziario. Sarà invece Azzurro a trainare le vendite e a riempire l’estate 1968 insieme a successi come Luglio di Riccardo Del Turco e Ho scritto T’amo sulla sabbia di Franco IV e Franco I.

Adriano dichiarerà a posteriori che era tutto previsto e calcolato: ma ironizzava, e lo sapevano tutti. Era stato il pubblico a fare la sua scelta spontanea, attraverso le misteriose ramificazioni del passaparola, le imperscrutabili contaminazioni dell’ascolto in onde medie, la cabala delle balere, le dinamiche delle gite scolastiche e delle feste da oratorio. Azzurro aveva avuto solo un paio di passaggi radiofonici durante le prime due settimane di pubblicazione, ma la cultura popolare se n’era subito impossessata.

Lo stesso accadde a dozzine di successi internazionali: i Them videro Baby, Please Don’t Go surclassata da Gloria, i produttori di Elvis credettero più in Don’t Be Cruel che in Hound Dog, e quelli di Bill Haley and His Comets in Thirteen Women invece di Rock Around The Clock. E poi i Queen non intendevano pubblicare Another One Bites The Dust, che invece è ancora oggi il loro best seller in America.

Sono meccanismi insondabili, che nessuno conosce e che pervadono l’intera industria editoriale. A Hollywood, tutti sanno che i film profittevoli non sono più di uno su cinque. L’editoria non aveva inizialmente creduto molto ne Il gattopardo, ma la folla dei lettori si impadronirà dell’opera (rivelatale dal film di Visconti) e ne farà un enorme successo. Emily Dickinson (†1886), poetessa adorata e apprezzata da oltre mezzo secolo e che oggi sentiamo stranamente modernissima, non fu quasi mai pubblicata in vita, e le rare volte in cui lo fu le sue opere vennero modificate dall’editore per adattarle al gusto dell’epoca. Vincent van Gogh (†1890) morì quasi nell’anonimato. E Caravaggio, che oggi rivaleggia con lui quanto a popolarità, poco dopo morto era stato dimenticato fino a che Roberto Longhi non lo riscoprì negli anni Venti del Novecento e lo presentò al pubblico con la fondamentale mostra di Milano del 1951.

È l’X Factor, è sempre stato così. È il grande eterno cruccio di tutti gli editori, produttori, manager, talent scout. Ci sono opere, o autori, che colpiscono il pubblico direttamente al cuore, senza che alcun esperto abbia saputo prevederlo. E magari ciò accade dopo che l’artista è morto, in un’epoca che carnalmente, secolarmente non è più la sua ma che spiritualmente sembra appartenergli appieno.

L’industria dell’entertainment utilizza da decenni il software più avanzato disponibile (attualmente, il Deep Learning) per analizzare la struttura e il contenuto delle canzoni di successo, allo scopo di identificare modelli, gusti e tendenze riutilizzabili per produrre automaticamente songs di successo o almeno di imbeccare quegli autori che si prefiggono di sfornare successi pronti all’uso. Non ha ancora funzionato, dopo oltre un quarto di secolo di tentativi. E intanto gli esperti ascoltano e analizzano i primi 15 secondi delle song lanciate su TikTok per capire l’arcano e decidere su quali investire…

Il mistero pop rimanda al mito della Caverna platonica, della conoscenza definitiva. San Paolo dice che oggi vediamo il mondo come attraverso uno specchio, nell’oscurità, ma che un giorno, quel giorno, vedremo le cose in faccia, chiaramente e nettamente («Videmus nunc per speculum in aenigmate. Tunc autem, facie ad faciem»). Quel giorno, forse, ossia da morti!, i discografici sapranno quale disco diventerà un hit, gli editori riconosceranno a prima vista i libri epocali, l’industria del cinema sfornerà un successo dopo l’altro senza mai bucare, l’IA dipingerà quadri che vanno a ruba, e gli investitori tecnocrati sapranno quale azienda, tra le cinquanta sulle quali stanno investendo, prospererà.

La figlia di un mio amico australiano ha preso la laurea breve come tecnico di laboratorio biomedico, indi si è iscritta a un PhD in reumatologia (?), dopo aver sostituito i due anni di Magistrale con un corso integrativo online di un semestre e così completando il dottorato a un’età di un anno inferiore a quella consueta. Adesso fa la giornalista scientifica e si professa scienziata. Speriamo solo che a nessuno venga in mente di ingaggiarla come medico…

Non è un record, ne avevo visti già altri simili in USA e in Europa, del tipo Magistrale di un solo anno e poi solo due di PhD; però se non altro erano corsi di studio coerenti e progressivi.

Qui in Italia siamo solo in ritardo, ma anche noi sulla strada della formazione farlocca e fatta solo di pezzi di carta, dopo avere distrutto un ottimo sistema terziario che aveva l’unico difetto di non essere socialmente inclusivo: necessitava solo di quella riforma, per la quale sarebbero forse bastate borse di studio in quantità massiccia anziché puramente di facciata. E l’affiancamento con gli Istituti Tecnici Superiori.

(In Australia gli ITS si chiamano “universities of enterprise” e fanno parte del sistema universitario. La figlia del mio amico è uscita con un bachelor da una di quelle ed è saltata quasi senza soluzione di continuità a un dottorato di ricerca. Lo so, fa ridere: ma è quello che avranno anche da noi i barbogi che invocano “più formazione scientifica”.)

Pixabay

Un pilastro dei curriculi à la carte tipici del mondo anglosassone—e ora anche del nostro—è la progressiva eliminazione dei corsi obbligatori. Da decenni, come sappiamo, sono stati liberalizzati gli accessi alle facoltà, salvo in quelle benemerite università che impongono test di ammissione. Ma da qualche anno, anche i singoli corsi erogati dalla facoltà, compresi quelli più avanzati, tendono a diventare ad accesso aperto: si dà una indicazione dei prerequisiti ma senza la imposizione di crediti da acquisirsi in corsi propedeutici.

Ed ecco che il corso di machine learning o biologia computazionale annovera ragazzi che sanno nulla di algebra lineare e/o di statistica; quello di programmazione per il computer quantistico non impone elementi di fisica come prerequisito; e agli appassionati di filosofia o diritto non viene chiesto di saper leggere testi appena complessi e saper scrivere in modo comprensibile.

Tutti costoro non imparano: credono di imparare.

Un’altra tendenza in grande crescita è la frequentazione almeno parzialmente online. Nel 1989 la University of Phoenix inventò anche quella esclusivamente online, e oggi ha, lei da sola, 170.000 iscritti in ‘DaD’. Interamente online sono conferiti solo il 2% dei titoli l’anno negli USA, ma il numero cresce esponenzialmente. Si possono seguire tutte le materie e ci sono dei master in gestione aziendale (MBA. La nostra Ingegneria Gestionale) dove “studierete come se steste guardando una serie Netflix“.

Non intendo snobbare il ruolo dell’apprendimento a distanza, proprio io che lavoro from anywhere e senza quasi andare in ufficio dal 1991. Né disprezzo l’utilità dei corsi online per apprendere in modo liberale, senza scopi produttivi né professionali. Le grandi università della Ivy League e il Collège de France offrono migliaia di video podcast gratuiti sulle discipline più disparate, tenuti da alcuni dei più grandi studiosi viventi. Vedi esempio. Ma questo è diverso dal pagare (spesso molto salato) per avere in cambio un titolo, una patente e magari la promessa di diventare un grande boss o una star.

E allora penso alle debolezze della comunicazione mediata tecnologicamente (prossemica, body language, eye contact, facilità di interazione, qualità degli strumenti multimediali, qualità delle linee), alla devastante mancanza di interazione allorché il docente non è dal vivo, alla spericolata diffusione, fino ormai alla quasi totale prevalenza, dei corsi preregistrati e non assistiti, nonché delle valutazioni algoritmiche.

L’impressionante numero di ragazzi che si masterizzano e dottorano in corsi esclusivamente studiati per venderne i titoli, e che magari li conseguono online, saranno assai meno capaci dei loro precursori. Se Ricolfi et al. stimano che in media un dottorato (PhD) italiano di oggi possieda “conoscenze, padronanza del linguaggio, e capacità logiche” di un maturando del 1962, non voglio pensare quale potrebbe essere la medesima stima effettuata tra quindici anni.

STEM vs umanistica

Questi pensieri si mescolano con quelli suscitatimi da un articolo di Nathan Heller sul New Yorker, il quale [mi ha un po’ confuso ma] mi conferma che gli studenti di materie umanistiche all’università USA sono in severo calo (≈ 30%) da almeno un decennio.

Tra le varie, la principale ragione sarebbe da ricercare nell’imponente affermarsi degli strumenti web/internet. Sottraendo enormi fette di tempo alla lettura estesa e approfondita, l’abuso del web ha statisticamente decurtato la quantità di persone disponibili a studiare in un modo che non sia frammentario, mordi-e-fuggi.

Questa frammentarietà è pefettamente riflessa dal sistema formativo, anche nel settore umanistico.

Se una pretende di essere Doctor of Rheumatology senza mai essere stata medico né biologo, allora un altro potrebbe desiderare di essere PhD in storia antica mediterranea senza aver mai visto l’alfabeto greco, e un altro ancora di acquisire un dottorato in Studi Cinematografici e Televisivi anche se stando ai test di alfabetizzazione OCSE non capisce la scrittura. E’, infatti, esattamente ciò che sta accadendo.

Ma è una risposta sbagliata questa che l’establishment sta dando ai ragazzi. L’internet è un formidabile strumento di apprendimento a sviluppo orizzontale, che dev’essere integrato con tecniche di valutazione delle fonti ed esperienze di approfondimento: scuola e università dovrebbero occuparsi di questo.

Esagero?

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Post scriptum: Tutto ciò non nega affatto e anzi sta perfettamente insieme alla mia convinzione che gli studenti molto bravi, diciamo il ≈ 5% del totale, lo siano oggi molto di più di quanto erano bravi i loro omologhi ai tempi miei, proprio grazie ai superiori mezzi di formazione (buone scuole e internet) che pure esistono, e dei quali essi sanno profittare.

Post scriptum: Nulla a che fare con il genio. Montale, Quasimodo, Ramanujan, Faraday, Darwin e compagnia bella non avevano alcun bisogno di andare a scuola, come a Diego Maradona non serviva la scuola di calcio: presentatosi ottenne per un provino all’Argentinos Juniors, fu riconosciuto fenomeno ma scambiato per mostriciattolo adulto dal coach Francisco Cornejo.

Margaret Hamilton, 1989

Adesso non verrò a dirvi che Neil Armstrong era là solo per fare piccoli aggiustamenti e per il resto scegliere opzioni da un menù. Ma se lo dicessi non andrei lontano dalla realtà.

L’Apollo Guidance Computer aveva il compito—svolto impeccabilmente—di portare la missione in orbita lunare, far staccare il modulo Eagle da quello di comando Columbia, portare il primo fino all’allunaggio, tenerlo là parcheggiato per un po’ e quindi riportarlo su per riattaccarlo, far rientrare Armstrong e Aldrin da Eagle a Columbia, sganciare definitivamente Eagle (che per quel che ne so orbita tuttora intorno alla Luna) e riportare Columbia fino all’ammaraggio nel Pacifico dopo un viaggio complessivo di oltre otto giorni.

L’allunaggio era avvenuto a circa cinque miglia di distanza dal punto prefissato dal software, perché Armstrong decise di posarsi un po’ più in là per evitare un cratere che la ricognizione di Apollo 10 di due mesi prima aveva rappresentato in modo ambiguo e che invece lui e Aldrin, assai più vicini, videro ben definito dal loro buffo finestrino triangolare. Questa variazione al programma fece sì che il modulo Eagle toccasse la Luna 40 secondi, dico quaranta secondi, dopo il previsto.

“Doc” Draper (sx) con Werner von Braun negli anni Sessanta

Lo hardware dell’Apollo Guidance Computer era stato progettato e costruito al Massachusetts Institute of Technology sotto la direzione di Charles Stark “Doc” Draper, con Eldon Hall capo delle squadre hardware e software di base, e Margaret Hamilton a capo di quella software applicativo. (Senza un software, ossia una lunga serie di istruzioni dettagliate scritte da persone, i computer non fanno nulla né sanno cosa fare, a malapena si accendono).

In pratica, questi team costruirono un computer apposito—che fra l’altro presentava per la prima volta i circuiti integrati—e scrissero tutti i programmi che avrebbero condotto le missioni Apollo in giro per lo spazio, incluso sulla superficie lunare, e ritorno. Hamilton personalmente fu decisiva anche perché inventò metodi e approcci destinati a diventare standard per il software real-time e mission-critical ancora oggi.

Margaret Hamilton occupa un posto di rilievo nel repertorio iconico che insegnanti, mamme e babbi possono illustrare alle ragazzine riluttanti a intraprendere studi ingegneristici, tecnici, specialmente informatici, anche quando ne sarebbero perfettamente in grado. (Senza, beninteso, obbligarle).

M. Hamilton, 2016

Lo occupa insieme alle calcolatrici umane de Il diritto di contare, e insieme ad Ada Lovelace, Grace Hopper, Mary Tsingou Menzel, Samantha Cristoforetti, Paola Cappellaro, Alessandra Lanzara, Ana Maria Rey, Giulia Semeghini (per non parlare di Marie Curie, Maria Goeppert-Mayer, Maryam Mirzakhani), e tante tante altre senza scordare Cassie Kozyrkov, che insegna intelligenza artificiale e informatica meglio di chiunque altro oltre a essere uno scienziato top di Google.

The Heart of Rock and Roll

Pubblicato: 18 febbraio 2023 da Paolo Magrassi in Uncategorized
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Dopo non so quanti anni rileggo le parole di Arbasino sulla musica di Webern.

… la squisita economia dei mezzi e la preziosa bellezza del suono, la meravigliosa concisione (pochissimi strumenti … brevissime durate …) e una pungente espressività …

Non si può non andare ad ascoltarlo, anche se magari ho già fatto l’esperimento in passato. Manifesto a un amico l’intenzione di comprare domani l’intero corpus weberniano: sono solo 6 CD. Davvero un grande! Mi sento uguale e opposto a Woody Allen, che uscendo dal Lincoln Center dopo cinque dure ore di Valchiria dice alla moglie: “Domattina ricordami di comprare tutti i dischi di Wagner. E una sega elettrica”.

Chiuso il libro, comincio subito con il mix di Youtube, un assaggino.

Ascolto da un altoparlante Anker collegato all’iPhone via Bluetooth. E ben presto sperimento quel che mi sovviene di avere scritto nel 2009 in La good-enough society, pagine 48 e seguenti. Al terzo riascolto dei 20 minuti già ce l’ho con Webern perché abusa della dinamica. Devo continuamente alzare e abbassare il volume. Pluggo l’iPhone dentro il uaifaione grosso che ho in studio ma, a parte che il problema della dinamica non è lenito del tutto, adesso entro in contatto con la parziale ma sicuramente apprezzabile—trattandosi di un maniaco come Webern—deprivazione sonora operata nelle trasfomazioni avvenute tra la registrazione quasi autentica del CD originale e quella di cui io fruisco su Youtube.

Sto ascoltando un simulacro, per speculum in aenigmate. Tutto quello di cui mi sto servendo allo scopo non esisteva, quando Arbasino scrive nel 1963, a poco più di trent’anni. Lui aveva sentito Webern nelle migliori sale da concerto europee. Ma soprattutto bigiava il liceo (lo stesso che avrei poi frequentato io, che magari sedetti sul suo stesso banco ma bigiavo per sorbire cioccolata calda) per correre in tempo a sentire le prove alla Scala. Mentre io a 18 anni ero stato a teatro forse cinque volte, musica compresa, e quasi sempre mi ero annoiato.

Sono nato con il rock, dentro il rock. Per immergermi in Webern, ma anche in Wagner ma anche in Verdi, mi devo concentrare, devo razionalizzare analizzando misura per misura come fossi a lezione di composizione, mentre nel profondo pulsa il same old back beat rhythm / that really, really drives ‘em wild.

Non sono impedimenti irremovibili, ma pesano. Mi chiedo quale sia la percezione dei ragazzi ed ex ragazzi che, divenuti apprezzati solisti di violoncello o pianoforte, escono nel dopoconcerto indossando t-shirts con su Hendrix. Mi chiedo quale fosse quella di Leonard Bernstein, che il 18 maggio 1969, il giorno dopo aver lasciato per sempre la conduzione della New York Philarmonic per potersi dedicare liberamente alla composizione, uscì dal suo appartamento al Dakota (pensa un po’…) per andare al Café Wha? a sentire Jimi.

Era una domenica luminosa a Manhattan. A mezzogiorno, dal Kennedy Space Center in Florida la NASA lanciava Apollo 10, per l’ultima prova generale.

Non diversamente da quelle per il wedding planner, il barber shop, il fitness, il parental control, lo hair stylist, o Halloween, l’idolatria per gli studi STEM—Science Technology Engineering Mathematics—è rotolata in Italia da pochi anni dopo aver preso sole per circa un quarto di secolo sui picchi americani.

Troppo fico. Peccato che il termine sia quasi privo di senso, salvo alludere al vecchio modo di dire “se faccio una facoltà scientifica o tecnica, poi mi sarà più facile trovare lavoro”. Ma questo è stato vero solo fino ai primi anni del XXI secolo.

Dopodiché, quando il sistema formativo terziario ha cominciato a sfornare ingegneri che non sapevano cos’è un autovalore, economisti in difficoltà col concetto di inflazione, scienziati alimentari col background di sommeliers, e biologi per i quali gli archèi sono antichi greci, si è cominciato ad agitarsi.

Edizioni L’Erudita, 2016 https://bit.ly/40IS2yO

Per farla breve, io credo che i giovani che studiano per lavorare meglio farebbero a rivolgersi agli ITS che non all’università, mentre quelli interessati a diventare anche colti dovrebbero orientarsi a studiare materie che li interessano ma frequentando esclusivamente facoltà selettive e severe. Vuoi, dopo aver placato un pochino la tua sede di sapere, anche trovarti un lavoro? Ebbene, preséntati pure come filosofo, archeologo, storico o sociologo, ma dopo una formazione d’eccellenza. Avrai pochi problemi.

C’è poi il filone delle STEM per le ragazze, che non dovrebbero essere educate solo a bambole né essere scoraggiate da bambine a intraprendere studi che implichino la matematica e/o la logica (che comunque c’entrano poco con molte STEM). Questo problema è ormai risolto in EU27 e in Nord America, dove le donne costituiscono il 50% o più dei laureati annuali in scienze naturali, matematica e statistica, oltre il 50% degli MBA, e il 60% dei nuovi medici.

Persiste la scarsità di ragazze nei corsi di informatica ma questo potrebbe avere a che fare con fattori anche diversi dalla classica emarginazione.