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Eurostat, Gender Pay Gap Statistics

La furia di voler spiegare tutto con un numeretto ci porta spesso a dire (e pensare) sciocchezze.

Ecco qui sopra Eurostat, di cui vedete la statistica 2022, affermare che le donne italiane sono le meno socialmente penalizzate di tutta l’EU: tre volte messe meglio della media e quattro volte più delle finlandesi e delle tedesche.

C’è qualcuno disposto a credere a questa favola?

Quel dato è assurdo perché il numeretto che Eurostat chiama Gender Pay Gap (e che scientificamente si chiama Gender Earnings Gap) dipende dalle strutture sociali delle nazioni considerate, senza le quali i confronti possono tingersi di ridicolo, proprio come questo istogramma.

Il numero italiano va rivisto considerando fattori locali come: la particolarmente bassa partecipazione femminile alla forza lavoro; il lavoro in nero; il peso delle microaziende (Eurostat considera solo quelle con più di dieci dipendenti); la elevata proporzione di lavoratrici italiane che sono impiegate nella PA, dove la parità è assicurata.

Disuguaglianze immaginarie

Succede anche con le disuguaglianze. Arriva uno, che sia il Financial Times o l’ultimo straccio di blogger, e posta una chart colorata che pretende di chiarire come vanno nel mondo le disuguaglianze reddituali. Milioni di LIKE.

Ma quasi nessun lettore pensa che un paese con un coefficiente di Gini bassissimo (= bassa disuguaglianza) può essere un paese in cui quasi tutti sono poveri. Infatti, nelle figure a colori che i media adorano, Bangladesh, Niger e Chad appaiono più “equi” della Danimarca. 😉

Non solo: la disuguaglianza va calcolata dopo le imposte, perché queste abilitano il welfare (essere poveri in Scandinavia o in Usa, fa una bella differenza). Solo così si capisce che gli Usa non sono più equi della Finlandia né la Turchia dell’Italia.

Sulle disuguaglianze, qui sotto trovate una grafica colorata più sensata e utile di quelle che solitamente si stampano.


Gini reddituale prima e dopo le imposte

Ma poi, e questo non lo dice neppure la nostra grafica “intelligente”, il coefficiente di Gini è influenzato anche dalla struttura demografica: per esempio, pochi lavoratori e molti cittadini inattivi, innalzano artificiosamente l’indice di disuguaglianza del paese.

Prima ancora dell’attitudine all’analisi dei dati, ci difettano il buon senso e persino lo humor. Il giornalista si dovrebbe chiedere se sta per caso sbagliando a interpretare la statistica prima di pubblicare un’infografica, per quanto belli siano i suoi colori. E ogni media dovrebbe decidersi a scritturare un giovane con dimestichezza nell’analisi dei dati.

La condizione femminile in un solo numero

E’ difficile che un solo numero possa dirci tutto, anche se esistono numeretti pregnanti che, se abbiamo fretta, ci aiutano a capire qualcosa di un contesto.

Le statistiche sul divario di guadagno, spesso chiamato erroneamente Gender Pay Gap, ci forniscono con un semplice numero un’indicazione molto utile di quanto le donne di un determinato paese siano penalizzate nella vita sociale (e lo sono quasi dovunque).

Però sono stupidaggini le frasi come le donne sono pagate all’incirca il 22% in meno degli uomini (EPI, 8 marzo 2024). A parità di lavoro e di tempo lavorato, le donne non sono meno pagate se non in rari casi.

Il vero problema è che, sempre in media, a fine anno avranno quasi sempre guadagnato meno, soprattutto perché le loro carriere sono distorte dalle cure dei figli, degli anziani, della casa, con la conseguenza che molte donne si rincantucciano in lavori modesti (segretaria, commessa, cassiera, badante, colf, …) mentre gli uomini svolgono la gran parte di quelli più pagati. Ed ecco che, sommando gli incassi dei due generi e anche dividendoli per le ore lavorate, si trovano le donne essere più povere di un 12,5% (Eurostat).

Questo divario di guadagno annuale ci offre un’indicazione sintetica, sebbene sommaria finché si vuole, della condizione femminile in una società.

Frasi come quella là del pasionario Economic Policy Institute,

  • sono fastidiose perché insinuano surrettiziamente che le donne siano pagate in media il 22% in meno degli uomini per lo stesso lavoro e con qualifiche equivalenti
  • fanno male alla causa della parità di genere perché i media più conservatori smascherano facilmente la falsità e diffonderanno la diceria che tutte le statistiche sul Gender Pay Gap sono farlocche

E’ particolarmente dannoso quando a propugnare frasi come quella sono dei ricercatori: essi sanno di ciurlare nel manico ma titolano così i comunicati stampa per avere copertura mediatica. La quale puntualmente arriva. Sotto forma di titoli roboanti buoni per l’8 marzo. E sbagliati.

https://ourworldindata.org/income-inequality

Di Oxfam ho già detto che condivido sia i presupposti sia gli intenti. Non ne condivido invece la comunicazione sguaiata e superficiale, e aborro le masse di incompetenti che si affrettano a commentarne la tradizionale press release al Forum di Davos.

Nella vulgata mediatica, l’impiego del sostantivo ‘disuguaglianze’ qualifica immediatamente il parlante come intellettuale progressista, mentre alle mie orecchie è un campanello che segnala la probabile presenza di un cretino cognitivo. (Sono entrambe reazioni pavloviane, intendiamoci).

Quest’anno, la sparata Oxfam di gennaio mi ricorda di ricordare, a quei cretini, una cosa non del tutto marginale: la ricchezza dei magnati come Gates o Bezos o Musk, non esisteva prima di loro.

Essi non hanno sottratto ricchezza al mondo, trasportandola nei propri forzieri. Ne hanno creato di nuova. Una buona parte di essa si è ammassata nelle loro mani, e un’altra nient’affatto trascurabile è andata al pubblico. Per esempio, è noto che Microsoft ha creato due miliardari ma anche più di diecimila milionari: dipendenti dell’azienda che prima della sua entrata in Borsa erano impiegati normali, non ricchi.

Si possono dire cose analoghe di molte altre aziende emerse nello scorso quarto di secolo, anche se alcune (come Amazon, similemente a Walmart prima di lei) hanno usato il capitalismo e il software così sagacemente da efficientare troppo il business e creando forse quasi altrettanta miseria tra il pubblico quanta ricchezza hanno prodotto tra gli azionisti, piccoli inclusi.

E poi non esistono solo i brillanti tycoon della high-tech e della new economy. Ci sono anche i grigi oligarchi del crony capitalism. E anche i primi, non si illustrano proprio sempre: basti vedere cosa combina e cosa dice Musk quando si occupa di politica.

Ma nel complesso, la polarizzazione della ricchezza in poche mani va vista alla luce di due fatti:

  • Il primo è che non si tratta di una novità bensì, fino a prova contraria, di una legge sociologica vecchia come il mondo.
  • Il secondo è parente del classico dilemma calvinista: sono diventato troppo ricco dunque adesso sarebbe carino che distribuissi la mia ricchezza anche agli altri; in fondo, mi basta trattenerne l’1% per vivere alla grande insieme a due o tre delle mie future generazioni.

E’ stupefacente osservare come la brutale società capitalistica americana abbia fatto più passi in questa direzione di quanti non ne abbiamo fatti noi socialdemocratici europei. Però li ha fatti solo attraverso la filantropia, in ossequio a una morale religiosa e con ritmi sporadici, occasionali. Qualcuno dovrebbe escogitare modi più metodici.

Io penso che le società evolute debbano trovare modi per ‘redistribuire’ di più (già ridistribuiamo molto: il 10% delle persone pagano il 70% delle tasse in quasi tutti i paesi democratici moderni), ispirandosi non già a una legge morale bensì a un esplicito intento economico: avrebbe senso investire nell’economia quelle ricchezze al fine di migliorare essa stessa.